Página / 2
Teoria Politica. Nuova serie Annali V, 2014
© 2015 Marcial Pons
Ediciones Jurídicas y Sociales, S. A.
ISSN: 0394-1248
Madrid, 2015 págs. 23-34

Crisi del capitalismo e crisi della democrazia. Note introduttive

Michelangelo Bovero*
Abstract
Crisis of Capitalism and Crisis of Democracy. An Introduction
The present article outlines a network of general concepts the author deems essential for the reflection on the crisis of capitalism and the crisis of democracy. First, two meanings of the concept of crisis, strong or weak, are distinguished as they are both commonly used in their two main fields of application, namely the study of the economic and the political systems. On the one hand, short term and/or sector-based economic crises are to be distinguished from the great crises of the capitalist system as that of 1929 and that begun in 2007; on the other hand, the conjunctural political crises, such as government crises, are to be distinguished from the great crises that affect the same structure of democratic regimes. In both fields, the exceptional degree of intensity of the current crisis led some scholars to consider the possibility that the very survival of the capitalist economic system and democratic political system could be at stake today. Secondly, the meanings implied in the notions of capitalism and democracy are reconstructed according to the prevailing general interpretations of both. Marx thrust forward an interpretation of capitalism as a mode of production of material existence —namely a type of economic system— able to influence the structure of social and political institutions; according to the interpretation given by historians and sociologists such as Sombart, Weber and Pirenne, it is conceived as a form of civilization whose principles shape both the economic and the political system. Democracy, according to the classical interpretation of Kelsen and Bobbio, is conceived as a kind of regime defined by a complex of rules set for the political decision-making process in order to ensure collective self-determination. According to other conceptions, from Dewey to Habermas, it is conceivable as a way of life. The author encourages to use the notion in its meaning as form of government, and redefines the specific nature of modern democracy as a «democracy of individuals» in opposition to the «democracy of the people» as collective actor. Thirdly, the author reconstructs the notion of individualism, to which both capitalism and modern democracy are deeply interconnected; here the complex notion of liberalism as ideological and cultural expression of modern individualism is analyzed. In addition to the distinction between the two souls of liberalism —economic and political—, liberal individualism and democratic individualism are identified as having a common genesis, but also as potentially conflicting. Moving from an early analysis of Norberto Bobbio, the author reconstructs the theses of the neoliberal doctrine that endured as hegemonic over the last forty years, according to which democracy as such can be the key factor to the crisis of capitalism. Finally, the author indicates the main directions for a research program on the crisis of capitalism and democracy on the basis of the network of concepts drawn in the article. A general representation of the current crisis is also present through the words of Hegel on the decadence of the Roman Empire.
Keywords: Crisis. Capitalism. Democracy. Individualism. Modernity.
1. Crisi
Nel linguaggio corrente, la parola «crisi» designa in modo generico una situazione di difficoltà, di disagio, di sofferenza (letterale o metaforica) di un soggetto o di una istituzione, o di un complesso di soggetti e istituzioni, o di un intero sistema sociale, o addirittura di una forma di vita e di convivenza. Così delineata in termini approssimativi ed elastici, la nozione comune di crisi ha un'estensione indeterminata e comprende differenti gradi di intensità. Per un verso, si contrappone alla rappresentazione intuitiva, e parimenti indeterminata, di uno stato di normalità, del quale essa, la «crisi», costituisce una perturbazione; per l'altro verso, si sovrappone fino a coincidere con la rappresentazione di un pericolo, anch'esso generico e variamente graduabile, non solo per il benessere ma talora per l'esistenza stessa del soggetto che entra in situazione di «crisi».
Faccio osservare, come mera curiosità, che il grado più intenso di una crisi viene qualificato indifferentemente, nel linguaggio comune, con l'uno o con l'altro di due aggettivi dal valore semantico opposto: la crisi più pericolosa la chiamiamo «acuta» oppure «grave». Ebbene, anche nel parlare corrente la «vera» crisi, la crisi per antonomasia è proprio questa: è la crisi acuta o grave, che insorge in modo repentino e violento, e che induce un rapido, e ripido, peggioramento delle condizioni di vita. È senz'altro questa la nozione di crisi divenuta prevalente e quasi esclusiva nell'uso comune degli ultimi anni, da quando (nel 2007) una perturbazione intensa e pericolosa della vita sociale si è diffusa in quasi ogni angolo del globo. In questa accezione, il termine «crisi» si riavvicina ad uno dei suoi significati originari: nella medicina antica, krisis — sostantivo derivato dalla radice del verbo krino, distinguere e separare, risolvere e decidere — indicava il momento o la fase appunto «decisiva» nel decorso di una malattia, quella fase, potremmo dire, in cui si presenta netta e drammatica la biforcazione tra la salvezza e la morte. In questa accezione, «superare la crisi» significa: guarire o perire.
Nel linguaggio delle scienze sociali, la nozione di crisi ha due campi principali di applicazione: parliamo correntemente di crisi economiche e di crisi politiche. In entrambi i casi, l'uso del termine oscilla tra gli estremi dell'accezione più blanda e generica e dell'accezione più forte e specifica. In campo economico, innumerevoli analisi vertono sull'ampia fenomenologia delle crisi congiunturali e/o settoriali; ma è facilmente distinguibile una corrente di studi dedicati alla o alle «grandi» crisi, quella del 1929 e ora quella del 2007, spesso orientati all'elaborazione o allo sviluppo di una «teoria della crisi» come tale, con attenzione primaria alle cosiddette «crisi cicliche» del sistema capitalistico. In campo politico, gli studiosi usano distinguere le crisi di «funzionamento», quali sono ad esempio le crisi di governo, dalle crisi «strutturali», che mettono a repentaglio l'identità o l'esistenza stessa dei sistemi e dei regimi politici, nazionali o regionali o internazionali.
In questo contributo, di carattere introduttivo, intendo invitare a riflettere sul tema della crisi, economica e politica, assumendo la prospettiva indicata dal grado estremo di intensità della nozione.
Per un verso, le crisi economiche cicliche, incluse persino quelle «grandi», possono essere —e sono per lo più— considerate come «crisi nel capitalismo», superando le quali in senso positivo il sistema trova forme di adattamento, a volte di rimodellamento anche radicale, come il New Deal, ma non cede il posto ad un sistema alternativo. In questa prospettiva, sono intese come «patologie fisiologiche», talora gravi e preoccupanti per i costi materiali e sociali, ma non mortali; anzi, potenzialmente rigeneratrici. Invece, la prospettiva che un numero crescente di studiosi va assumendo porta a considerare la crisi attuale, indipendentemente dal suo apparente andamento ciclico di recessione e ripresa, come una possibile «crisi del capitalismo», tale da rendere sensata la domanda: «può il capitalismo sopravvivere?».
Per l'altro verso, e in modo analogo, le crisi politiche, non solo le crisi di governo più o meno turbolente negli stati nazionali o nelle istituzioni infra o sovra-statali, ma anche le crisi che sembrano investire gli assetti strutturali del regime politico prevalente nel mondo contemporaneo — come la cosiddetta «crisi di governabilità delle democrazie» teorizzata (per non dire inventata: era in realtà una costruzione ideologica) da Crozier, Huntington e Watanuki nel famoso rapporto alla Commissione trilaterale del 19751; o la più recente crisi acuta di legittimazione delle classi politiche in quasi tutte le democrazie attuali, soprattutto europee, che ha innescato processi come quelli ricostruiti da Pierre Rosanvallon e raccolti sotto la nozione di «contro-democrazia»2, variamente attraversati o accompagnati o contrastati da fenomeni di populismo e di leaderismo più o meno carismatico; o anche la più generale crisi di potere delle istituzioni politiche, potremmo dire la crisi del potere politico in quanto tale nelle sue forme tradizionali; ebbene, tutte queste (ed altre) specie di crisi politica — sono da molti considerate come «crisi nella democrazia», ancora come patologie fisiologiche, anch'esse potenzialmente capaci di suscitare nuove energie di rigenerazione democratica, almeno per reazione: ad esempio, quelle energie reattive che spingerebbero verso il recupero di forme di democrazia diretta, o meno indiretta, come la sedicente democrazia partecipativa o deliberativa o digitale; o anche al passaggio (in corso, e già compiuto in numerosi ambiti e a molti livelli) dal government alla governance. Alcuni decenni or sono lo stesso Norberto Bobbio, il cui insegnamento è all'origine e rimane alla base della tradizione torinese di teoria politica, affermava che la democrazia è per sua natura sempre in trasformazione, dunque le crisi che la attraversano portano questa forma politica a rimodellarsi continuamente3. Al contrario, nei tempi più recenti è cresciuto il numero degli studiosi che tendono a considerare talmente gravi le patologie di cui soffrono le democrazie attuali, da configurare una vera e propria «crisi della democrazia». Al punto da indurre un noto politologo, Alfio Mastropaolo, ad intitolare un suo libro recente con questa formula, sia pur dubitativa: «la democrazia è una causa persa?»4.
2. Capitalismo, democrazia
In questa sede, vorrei offrire qualche contributo di analisi e ricostruzione concettuale sulle nozioni complesse di «crisi del capitalismo» e di «crisi della democrazia». Provo anzitutto a chiarire quali significati si possono attribuire ai termini «capitalismo» e «democrazia» nell'uso di quelle nozioni.
È noto che il termine «capitalismo» subì a lungo l'ostracismo iniziale da parte degli economisti classici. E tutti sappiamo che, all'esaurirsi della florida stagione del marxismo teorico del Novecento, verso la fine degli anni '70, e poi dopo il crollo del comunismo reale, alla fine degli anni '80, cioè proprio all'epoca del trionfo del capitalismo sui suoi nemici storici, la parola è pressoché scomparsa dall'uso corrente, sostituita da due espressioni già circolanti ma che allora presero decisamente il sopravvento, spesso con intonazioni apologetiche: «economia di mercato» e «società di mercato». Un po' per celia, ma non troppo, si potrebbe dire che la visione dominante dei cultori delle scienze economiche (ma non solo essi) alla fine del secolo breve aveva resuscitato il quadro categoriale di quegli economisti classici, come Say, criticati da Marx per aver confuso la produzione mercantile semplice con la produzione capitalistica5. Solo da pochi anni il termine «capitalismo» è tornato in auge, e non raramente proprio in coppia con il termine «crisi». Ma in quale significato di «capitalismo»?
Come suggerisce una pregevole sintesi teorica proposta qualche tempo fa da Roberto Panizza6, del capitalismo si dànno due interpretazioni generali. La prima, inaugurata da Marx ma accolta nella sostanza anche al di fuori delle correnti di pensiero marxiste, per esempio da Schumpeter, definisce il capitalismo come un modo di produzione e riproduzione dell'esistenza materiale, fondato sulla valorizzazione del denaro; dunque, come un tipo determinato di sistema economico, la cui affermazione in senso pieno e proprio coincide con la rivoluzione industriale del xviii secolo. In base ai notissimi canoni del materialismo storico (chiedo venia per la semplificazione estrema) il modo di produzione tende a condizionare e finisce per determinare le forme delle istituzioni sociali e politiche, le forme del pensiero e della coscienza collettiva, dunque un'intera forma di vita e di civiltà. La seconda visione generale concepisce il capitalismo direttamente e complessivamente come una forma di civiltà, definita dall'egemonia di modi di pensiero e stili di vita orientati al perseguimento dell'utile e del profitto, che informano e plasmano il sistema economico, sociale e politico. Werner Sombart, ne Il capitalismo moderno, opera scritta tra il 1902 e il 19277, individuava l'origine remota della civiltà capitalistica nei comportamenti di gruppi marginali come eretici ed ebrei alla fine del medioevo; Max Weber sottolineava, ne L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, del 19048, l'importanza decisiva della concezione calvinista del lavoro come Beruf, ma più in generale riconduceva il capitalismo al processo di razionalizzazione che ha caratterizzato in modo esclusivo l'occidente moderno; Henri Pirenne, nella Storia d'Europa dalle invasioni al XVI secolo, scritta nel 19179, puntava l'attenzione sul grande commercio internazionale che infranse la chiusura della società feudale.
Non è questa l'occasione per tornare a discutere le virtù e i vizi rispettivi di queste visioni generali, tanto meno sulle loro ricorrenti degenerazioni nei due opposti determinismi, economico e culturale-ideologico. Quel che qui importa è che da entrambe le prospettive si può giungere alla formulazione della tesi secondo cui un complesso di ragioni e dinamiche storiche oggettive porta all'attrazione e convergenza reciproca, e al reciproco condizionamento, tra il sistema economico capitalistico (o se si preferisce, la «formazione economico-sociale» capitalistica) e un tipo determinato di sistema politico, e anzi di regime politico. È questo regime la democrazia? Ma in che senso di «democrazia»? Quale democrazia?
Per amor di simmetria, e con analoga semplificazione, potremmo dire che anche della democrazia si danno due visioni generali: la prima concepisce la democrazia come una specifica forma di governo o (ma è solo un altro modo di dire la stessa cosa) un determinato tipo di regime politico; la seconda, come una forma di vita. Se dovessi indicare alcuni nomi esemplari di capiscuola per le rispettive correnti ideali, suggerirei quelli di Hans Kelsen per la prima e di John Dewey per la seconda; o in tempi a noi più vicini, quelli di Norberto Bobbio per la prima e di Jürgen Habermas per la seconda. Ma tutti sappiamo che l'iper-inflazione del termine «democrazia» nel linguaggio comune e in quello degli studiosi, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, ha prodotto mille slittamenti e distorsioni di significato. In questo caso, perciò, per proseguire l'analisi e per evitare i più diversi fraintendimenti si rende necessaria una scelta precisa, una ridefinizione rigorosa. Userò ed invito ad usare il termine «democrazia» per indicare il tipo di regime definito da una specifica classe di regole concernenti la titolarità e l'esercizio del potere politico, in base alle quali ogni e ciascun individuo che sia sottoposto all'obbligo politico di obbedire alle leggi (meglio: alle norme vincolanti erga omnes, frutto delle decisioni collettive), e dunque alle pubbliche autorità, ha il diritto-potere, eguale ed equipollente a quello di ogni altro, di partecipare direttamente o indirettamente al processo di produzione delle leggi (delle norme) e di formazione degli organi di decisione collettiva.
Questa ridefinizione minima vuol essere semplicemente (la proposta di) una regola convenzionale per un uso rigoroso del termine, e pretende di valere per qualunque variante storica dei fenomeni sensatamente designabili con il nome di democrazie. In altre parole, vale sia per la democrazia degli antichi, sia per la democrazia dei moderni. Ma nella prospettiva del presente contributo, che è quella di riflettere sulle relazioni tra capitalismo e democrazia, e tra crisi del capitalismo e crisi della democrazia, è ovvio che diventa rilevante la differenza specifica della democrazia dei moderni. Ebbene, invito a non identificare immediatamente, secondo i moduli scolastici più diffusi, la democrazia moderna con la democrazia rappresentativa, per contrapposizione alla democrazia antica come democrazia diretta. Non già perché questa distinzione sia inesatta o inappropriata: non lo è (per lo meno, nelle linee generali); bensì perché essa stessa è piuttosto una conseguenza del carattere essenziale che identifica la democrazia moderna come tale, cioè come una dimensione della modernità. Non ho certo intenzione di ripercorrere ancora una volta i sentieri canonici della riflessione sulle differenze tra antico e moderno e tra democrazia degli antichi e dei moderni. Userò perciò formule sintetiche, scommettendo su una loro efficacia intuitiva, almeno parziale: la democrazia dei moderni è la democrazia degli individui, non la democrazia del popolo, come (indistinto) soggetto collettivo, o come classe popolare maggioritaria, come plethos, «gran numero», massa o folla, o (in una variante postmoderna) come «pubblico». Ciò significa che la democrazia del popolo, «populista», o la «democrazia del pubblico», per adottare l'espressione di Bernard Manin10, si mostrano subito come degenerazioni della democrazia moderna, patologie gravi della «democrazia degli individui»; cioè, come forme o aspetti dell'attuale crisi della democrazia.
3. Individualismo moderno. Liberalismo, neo-liberalismo
Capitalismo e democrazia dei moderni affondano le loro radici in un terreno comune: quello dell'individualismo moderno. Anzi, la visione generale della modernità per me più convincente è proprio quella che ne riconosce il principio fondante nell'emancipazione dell'individuo dalle appartenenze comunitarie. Intesa in questo senso, la modernità è il progetto — e la modernizzazione è il lungo, travagliato, contrastato e contraddittorio processo — di costruzione della società degli individui in tutte le sue dimensioni, in particolare nella dimensione economica e nella dimensione politica. Per usare un linguaggio filosofico, il principio moderno è quello della libertà soggettiva, che conferisce all'individuo come tale la facoltà, da lui rivendicata come diritto, di perseguire la soddisfazione dei propri bisogni ed interessi personali e di assumere e sviluppare propri criteri di giudizio e di convincimento morale, religioso, politico, rifiutando l'opposto principio di autorità in ogni campo.
Genuina espressione culturale, ideale e ideologica dell'individualismo moderno fu il liberalismo, nel senso più ampio e classico del termine. Ma al solo menzionare questo termine si entra in un'altra regione sommamente confusa della babele delle lingue. Uno dei numi tutelari del cosiddetto «neo-liberalismo» contemporaneo, Friedrich von Hayek, sosteneva ad un dipresso che, dopo Roosevelt, nel linguaggio politico statunitense il significato della parola liberalism aveva cominciato a snaturarsi ed anzi a capovolgersi, giungendo fin quasi a coincidere con il significato di socialism11. Nonostante l'esagerazione polemica, forse non aveva tutti i torti, almeno da un certo punto di vista, che è lo stesso adottato recentemente da alcuni aderenti al Partito Repubblicano nell'osteggiare le riforme di Obama. Ma la confusione semantica è più estesa e più grave: infatti, è facile osservare che non solo nei discorsi politici correnti, bensì anche nel linguaggio colto delle pubblicazioni scientifiche (soprattutto nordamericane), non di rado vengono sovrapposti e persino scambiati tra loro i significati canonici dei termini «liberalismo» e «democrazia». In numerosi contesti, «democrazia» viene ad indicare un sistema e una cultura politica fondati sulla garanzia dei diritti «civili», cioè dei diritti liberali di libertà individuale; «liberalismo» viene ad indicare una corrente politica aperta ad esprimere le istanze della volontà popolare e impegnata a difenderle contro le imposizioni oligarchiche e autoritarie. Ancora una volta, è necessario un chiarimento mediante ridefinizioni rigorose. In estrema sintesi, e di nuovo con qualche semplificazione drastica: secondo gli usi storicamente prevalenti nella cultura moderna europea, dove queste nozioni sono state plasmate, per liberalismo si intende la famiglia (ampia e litigiosa) di correnti ideali e movimenti politici che perseguono come fine la limitazione del potere del collettivo sugli individui, ovvero della volontà pubblica sulle volontà private; per democrazia si intende la classe dei regimi politici fondati sulla distribuzione egualitaria tra gli individui del potere del collettivo, ossia del potere pubblico di regolare i comportamenti individuali privati. Un ordinamento liberale (a potere pubblico limitato) può non essere democratico; un ordinamento democratico (a potere pubblico distribuito) può non essere liberale.
La dottrina del liberalismo —della vasta e litigiosa famiglia dei liberalismi: insomma, qualsiasi corpo di idee che abbia senso chiamare liberale secondo la ridefinizione che ho proposto— si compone di due aspetti complementari, una (qualche) teoria economica del «libero mercato» e una teoria politica dello stato limitato nei poteri e nelle funzioni, ossia dello «stato minimo»; senonché, su questi due versanti di un unico orizzonte ideale sono cresciute e si sono via via radicalizzate due anime distinte del liberalismo: l'una determinata ad estendere indefinitamente la libertà dell'homo oeconomicus di perseguire i propri interessi sul mercato, l'altra votata a difendere i diritti di libertà non (solo) economica dell'homo civilis contro ogni abuso di potere, ossia la libertà personale come immunità da coazioni arbitrarie e dalla tortura, la libertà di pensiero e di coscienza, la libertà di riunione e di associazione. L'una ha prodotto l'ideologia del mercato senza vincoli, l'altra ha guidato l'avvio del processo di costituzionalizzazione degli stati. Come ha riconosciuto un grande liberale recentemente scomparso, Ralf Dahrendorf, queste due anime erano destinate a confliggere12. Quale delle due abbia prevalso nel nostro tempo fino a soggiogare l'altra, quale sia l'anima del neo-liberalismo trionfante, è facile vedere.
Durante i cosiddetti «trenta gloriosi» (ma furono in realtà ventotto: dalla fine della guerra nel 1945 alla crisi petrolifera del 1973) la dottrina e l'ideologia liberale era ovunque in declino, molti la davano per morta. La sua resurrezione negli anni Settanta fu prorompente e sorprendente. Nel 1981, proprio all'avvento di quello che vorrei chiamare il «neo-liberalismo reale» — il primo governo Thatcher è del 1979, il primo mandato di Reagan è precisamente del 1981 — Norberto Bobbio scrisse un saggio dal titolo Liberalismo vecchio e nuovo13. Al termine di un'analisi lucida e spregiudicata, scriveva: «Il pensiero liberale continua a rinascere, anche sotto forme che possono urtare per il loro carattere regressivo, e da molti punti di vista ostentatamente reazionario […], perché è fondato su una concezione filosofica da cui, piaccia o non piaccia, è nato il mondo moderno: la concezione individualistica della società e della storia»14. Ma, secondo Bobbio, dalla concezione individualistica moderna, che egli considerava «irrinunciabile»15, sono derivati tanto il liberalismo nella sua matrice ideale originaria, quanto la democrazia moderna come democrazia degli individui. Il principio ontologico ed etico dell'autonomia individuale e della pari dignità di ciascuno è, diceva Bobbio, «la base filosofica della democrazia: una testa, un voto»16. L'autonomia individuale è l'elemento semplice, «atomico», dell'autodeterminazione collettiva.
4. Due individualismi. Liberalismo e democrazia
Tuttavia, l'individualismo liberale e l'individualismo democratico sono bensì congeneri, ma specificamente differenti e potenzialmente confliggenti. C'è una pagina di Bobbio che li mette a confronto in modo suggestivo: «Il primo [l'individualismo liberale] recide il singolo dal corpo organico della società e lo fa vivere fuori dal grembo materno immettendolo nel mondo sconosciuto e pieno di pericoli della lotta per la sopravvivenza, dove ognuno deve badare a se stesso, in una lotta perpetua. Il secondo [l'individualismo democratico] lo ricongiunge agli altri individui simili a lui, che considera suoi simili, perché dalla loro unione la società venga ricomposta non più come il tutto organico da cui è uscito [scil.: la comunità premoderna], ma come un'associazione di individui liberi. Il primo rivendica la libertà dell'individuo dalla società. Il secondo lo riconcilia con la società, facendo della società il risultato di un libero accordo tra individui intelligenti. Il primo fa dell'individuo un protagonista assoluto, al di fuori di ogni vincolo sociale. Il secondo lo fa protagonista di una nuova società che sorge dalle ceneri dell'antica, in cui le decisioni collettive sono prese dagli stessi individui o dai loro rappresentanti»17.
Secondo l'affascinante affresco di Bobbio, due individui idealtipici, il liberale e il democratico, convivono nel medesimo individuo anch'esso idealtipico, rappresentativo del mondo moderno come un microcosmo rispetto al macrocosmo. Ma i due individui, il liberale e il democratico, possono davvero convivere, o non tenteranno di sopraffarsi a vicenda? Affinché l'individuo rappresentativo moderno possa non ammalarsi, non entrare in una crisi pericolosa, le due identità debbono disporsi in un qualche ordine, in una relazione equilibrata. Forse si potrebbe sviluppare la costruzione di Bobbio in una direzione euristicamente feconda, avvicinando i due individualismi alle componenti dell'anima individuale come la descrive Platone nella Repubblica, in un luogo che secondo alcuni studiosi prefigura la teoria di Freud18: la psyché, anch'essa presentata come microcosmo rispetto al macrocosmo della polis, comprende un'anima pulsionale, generatrice —per così dire— di «spiriti animali», di passioni, desideri e interessi, e un'anima razionale, regolatrice e ordinatrice; tra le due, Platone colloca una terza anima, l'anima «animosa» o irascibile, capace di indignazione, che dovrebbe, se bene indirizzata, aiutare l'anima razionale a mantenere il giusto equilibrio della psiche individuale. Quando l'anima pulsionale prende il sopravvento, e la ragione ordinatrice cede il ruolo di governo diventando ancella delle passioni e dei desideri, si genera l'individuo tirannico, dominatore arrogante proprio perché schiavo di se stesso, della propria natura animale («più debole di sé», diceva Platone); e l'indignazione si rivela impotente. Quante volte abbiamo lamentato che la politica delle democrazie reali è ridiventata, e oggi più che mai, ancella dell'economia, succube della sua falsa pretesa di essere lei, l'economia capitalistica, ad incarnare una superiore razionalità? Quale sia la razionalità di un sistema, come quello del «finanzcapitalismo»19, che si potrebbe caratterizzare come sistema della «produzione di denaro a mezzo di denaro», non riesco a comprendere.
Nel saggio di Bobbio su Liberalismo vecchio e nuovo, un paragrafo è intitolato: «Liberalismo e democrazia sono compatibili?»20. Secondo Bobbio, considerando il più vasto scenario della storia delle istituzioni, si può dire che la democrazia sia stata la naturale prosecuzione e il compimento del liberalismo: tutti gli stati liberali sono diventati, prima o poi, stati democratici, senza smettere di essere liberali, sia nel senso della garanzia dei diritti di libertà individuale, quei diritti che della democrazia sono e restano le precondizioni essenziali, sia nel senso della preservazione del mercato capitalistico, con cui le democrazie moderne hanno sempre convissuto. Ma questa convivenza è entrata in crisi, più o meno grave, alcune volte. Osservava Bobbio, proprio agli esordi di quello che ho chiamato il neo-liberalismo reale: «Mentre durante la crisi degli anni Trenta era parso che fosse il capitalismo a mettere in crisi la democrazia, ora sembra a costoro [i neo-liberali] che sia la democrazia a mettere in crisi il capitalismo»21. Possiamo aggiungere: questa era già la tesi centrale del Rapporto sulla governabilità delle democrazie del 1975, ricordato sopra22, ed è rimasta sostanzialmente la stessa lungo i decenni successivi, ad orientare innumerevoli espressioni dell'egemonia ideologica neo-liberale23. E da una medesima tesi di fondo, sono state tratte indicazioni terapeutiche per la crisi analoghe ai «consigli» già contenuti in quello storico Rapporto: le domande dei cittadini non devono sovraccaricare il sistema, occorre filtrarle e selezionarle; i diritti sociali potrebbero essere in qualche misura soddisfatti solo in presenza di abbondanti risorse, che non ci sono; anzi, non sono affatto diritti ma «benefici» eventuali che non devono essere garantiti, per non rendere insostenibile il costo del lavoro alle imprese impegnate nella competizione globale; occorre impedire ai rappresentanti politici e ai governanti di rispondere alle domande dei cittadini facendo promesse di spesa, bisogna imporre agli stati il vincolo del pareggio di bilancio, meglio se questo vincolo è stabilito in costituzione; anzi, occorre mettere in quarantena i rappresentanti politici, semplificare e depotenziare gli stessi organismi rappresentativi, per rafforzare invece i poteri di vertice, i poteri esecutivi, in modo che possano essere efficienti e rigorosi nell'eseguire (appunto) gli imperativi economici; i soli rappresentanti che dovrebbero essere ammessi al tavolo delle decisioni sono i rappresentanti degli interessi, per ingentilire al femminile, con «la» governace, i rigori del government, e renderlo così più flessibile. Non credo di aver proposto una sintesi infedele.
Bobbio concludeva la sua analisi con queste parole: «Si può descrivere sinteticamente questo risveglio del liberalismo attraverso la seguente progressione (o regressione) storica: l'offensiva dei liberali è stata rivolta storicamente contro il socialismo, il suo naturale avversario nella versione collettivistica; in questi ultimi anni è stata rivolta anche contro lo stato-benessere, cioè contro la versione attenuata del socialismo; ora viene attaccata la democrazia, puramente e semplicemente». E soggiungeva infine: «L'insidia è grave»24.
Del resto, possiamo ricordare che da sempre il pensiero liberale classico —basti menzionare Tocqueville— ha diffidato del potere democratico, temendo che la volontà delle maggioranze potesse restringere gli spazi di libertà individuale fino ad annullarli. Ma all'opposto, il pensiero democratico classico, a partire da Rousseau, ha sempre diffidato dell'espansione incontrastata delle libertà dei privati, temendo che potesse generare diseguaglianze di ogni specie, in ricchezza, in forza, in capacità di persuasione e di inganno, e che i potenti si impadronissero del gioco democratico, snaturandolo e svuotandolo dall'interno.
5. In luogo di una conclusione
Queste note introduttive non possono, in quanto tali, essere concludenti. Perciò, al posto di una chiusura, propongo un'apertura. Indico qui di seguito i punti principali di un programma di ricerca, o più modestamente di un piano di riflessione, quale potrebbe svilupparsi entro e a partire dalla rete di concetti generali che ho provato a delineare in queste pagine. A mio avviso, la riflessione dovrebbe tentare di rispondere a queste domande:
a) se davvero sussistano e in che cosa precisamente consistano la crisi del capitalismo e la crisi della democrazia, e se l'una o l'altra o entrambe possano essere intese come crisi nel senso forte o nel senso debole che ho proposto di distinguere all'inizio di questo contributo;
b) se l'una e l'altra crisi siano da considerare in tutto o in parte endogene, rispettivamente al sistema economico e al sistema politico, o se invece l'una abbia provocato o aggravato l'altra, nell'una o nell'altra o in entrambe le possibili direzioni del nesso causale: ovvero, se la crisi del capitalismo, o il capitalismo stesso come tale, sia tra le cause della crisi della democrazia, oppure viceversa se la crisi della democrazia, o la democrazia stessa come tale, abbia indotto o favorito la crisi del capitalismo, oppure ancora se sia possibile riscontrare un'interazione reciproca;
c) se la crisi o le crisi potranno risolversi con la guarigione oppure con la morte del o degli infermi, e se e in che modo l'esito o gli esiti potrebbero essere controllati o governati.
Ma per terminare il mio discorso introduttivo, vorrei infine provare a rispondere ad un'altra domanda: come possiamo delineare un'immagine persuasiva della crisi attuale? Mi è capitato spesso, negli ultimi quindici o vent'anni, di rappresentare almeno un aspetto della complessa crisi della democrazia, ormai degenerata in forme più o meno conclamate di autocrazia elettiva, come l'esito dell'invasione di termiti voraci che erodono le membrature di un mirabile edificio, lasciandone in piedi solo fragili apparenze esteriori. Ma forse la metafora potrebbe adattarsi anche alla crisi del capitalismo. Il gioco d'azzardo con carte truccate delle istituzioni finanziarie suggerisce l'idea di un'aggressione parassitaria al corpo sociale, così feroce da lasciarlo esangue; ma anche la figura drammatica di una sorta di autofagia del capitale, o addirittura di un cannibalismo tra parassiti. Immagini esagerate per gusto del grottesco? Forse. Ma nella letteratura si trova di peggio.
È stata talvolta evocata, come termine di un'analogia plausibile con il nostro tempo (ma soprattutto con l'ultimo ventennio della sciagurata storia patria italiana), l'età della decadenza dell'impero romano. Così la descrive Hegel, nelle Lezioni sulla filosofia della storia:
Come, quando il corpo fisico si dissolve, ogni punto acquista una vita per sé, la quale è però soltanto la miserabile vita dei vermi, così qui l'organismo statale si dissolve negli atomi delle persone private […]. Il corpo politico è un cadavere in putrefazione, pieno di vermi puzzolenti […]. L'impero romano è proceduto fino all'autocrazia di un singolo, sino a qualcosa di irrazionale, arido, astratto, a un ordine che è nient'altro che ordine senza ragione, a un dominio che è nient'altro che dominio senza contenuto etico. Perciò tutti, eccetto l'autocrate, sono solo sudditi […]. Il complesso è una realtà senza spirito, un fenomeno senza sostanza, un cadavere, in cui c'è molto movimento, ma è un movimento di vermi. Tutte le forze dell'interesse privato e della cupidigia, tutti i vizi sono scatenati25.
Il mondo globale oggi non ha un autocrate singolo, il «signore del mondo», come Hegel chiamava l'imperatore romano. Abbiamo però un'oligarchia informale ibrida, politico-economico-finanziaria, che domina ma non governa, come suggeriva Hegel. E il corpo sociale e politico brulica di molti vermi; ma è soprattutto pieno di vittime. Forse però non è ancora morto. È in crisi grave, economica e politica. Non credo che la supereremo se non liberandoci dall'abbraccio mortale del capitalismo in crisi alla democrazia in crisi.
6. Bibliografia
Barr, M., e Mackie, D. (2013). The Euro area adjustment: about half way there (Europe Economic Research, JPMorgan), http://dailystorm.it/wp-content/uploads/2013/06/JPM-the-euro-area-adjustment-about-halfway-there.pdf.
Bobbio, N. (1984). Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi.
— (1999). Teoria generale della politica, Torino, Einaudi.
Crozier, M. J., Huntington, S. P. e Watanuki, J. (1977). La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale (1975), tr. it. Milano, Franco Angeli.
Dahrendorf, R. (1985), Liberalismo radicale, «Libro aperto», 29/30.
— (1988). Per un nuovo liberalismo (1987), tr. it. Roma-Bari, Laterza.
Gallino, L. (2009). Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi.
Hayek, F. v. (1966). Liberalismo (1973), Roma.
Hegel, G.W.F. (1963). Lezioni sulla filosofia della storia (1840), tr. it. Firenze, La Nuova Italia.
Mancuso, F. (2013). Il «costituzionalismo» di J. P. Morgan, in Tucci A. (ed.), Disaggregazioni. Forme e spazi di governance, Milano, Mimesis, 81-90.
Manin, B. (2010). Principi del governo rappresentativo (1997), tr. it. Bologna, il Mulino.
Mastropaolo, A. (2011). La democrazia è una causa persa? Paradossi di un'invenzione imperfetta, Torino, Bollati Boringhieri.
Panizza, R. (2004). Capitalismo, in Bobbio, N., Matteucci, N. e Pasquino, G. (a cura di), Dizionario di politica, nuova edizione Torino, Utet.
Pirenne, H. (1999). Storia d'Europa dalle invasioni al XVI secolo (1936), tr. it. Roma, Newton Compton.
Platone (2007). La Repubblica, tr. it. Milano, Rizzoli
Rosanvallon, P. (2009). La controdemocrazia. La politica nell'era della sfiducia (2006), tr. it. Troina, Città aperta.
Solinas, M. (2008). Psiche: Platone e Freud, Firenze, FUP.
Sombart, W. (1967). Il capitalismo moderno (1902-1927), tr. it. Torino, Utet.
Stella, M. (1998), Freud e la Repubblica: l'anima, la società, la gerarchia, in Vegetti, M. (a cura di), La Repubblica di Platone, vol. III, Napoli, Bibliopolis, 287-336.
Sweezy, P. (1970). La teoria dello sviluppo capitalistico (1942), tr. it. Torino, Bollati Boringhieri.
Vegetti M. (2007). Introduzione a Platone (2007), 86-103.
Weber, M. (2008). L'etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904), tr. it. in Id., Sociologia delle religioni, Torino, Utet.
*Università di Torino, michelangelo.bovero@unito.it.
1Crozier, Huntington, Watanuki, 1977.
2Rosanvallon, 2009.
3«Per un regime democratico l'essere in trasformazione è il suo stato naturale: la democrazia è dinamica, il dispotismo è statico e sempre eguale a se stesso» (Bobbio,1984: VIII).
4Mastropaolo, 2011.
5Sweezy, 1970: 59 ss.
6Panizza, 2004.
7Sombart, 1967.
8Weber, 2008.
9Pirenne, 1999.
10Manin, 2010.
11Hayek, 1996: 38.
12Dahrendorf, 1985; 1988.
13Bobbio, Liberalismo vecchio e nuovo (1981), poi ricompreso in Bobbio, 1984.
14Bobbio, 1984: 123.
15Bobbio, 1984: 124.
16Bobbio, 1999: 437.
17Bobbio, 1999: 334.
18Platone, 2007: libro IV. Cfr. Vegetti 2007; Stella, 1998; Solinas, 2008.
19Ovviamente, riprendo il termine e la nozione da Gallino, 2011.
20Bobbio, 1984: 120 ss.
21Bobbio, 1984: 120.
22Crozier, Huntington, Watanuki, 1977.
23Tra esse è da annoverare un discusso documento degli economisti della banca d'affari JPMorgan, del maggio 2013, intitolato The Euro Area Adjustment: About Half Way There (Barr, Mackie, 2013). V. il commento di Mancuso, 2013.
24Bobbio, 1984: 122.
25Hegel, 1963: vol. III, 227, 230.